La proprietà dell'ambra strofinata di attirare oggetti leggeri era probabilmente già nota al filosofo greco Talete di Mileto, intorno al 600 a.C. Negli scritti di Teofrasto, che risalgono a tre secoli dopo, vengono citati altri materiali che godono della stessa proprietà. Il primo studio scientifico dei fenomeni elettrici e magnetici, tuttavia, apparve solo nel 1600 d.C., quando furono pubblicate le ricerche del fisico britannico William Gilbert. Fissata la distinzione elettricità e magnetismo, questi chiamò elettrica (dal greco, elektron, "ambra") la forza che si esercita tra cariche.
La prima macchina per produrre cariche elettriche fu descritta nel 1672 dal fisico tedesco Otto von Guericke. Si trattava di una sfera di zolfo, messa in rotazione per mezzo di una manovella, che si elettrizzava quando si appoggiava una mano su di essa. Lo scienziato francese Charles François de Cisternay du Fay fu il primo a riconoscere l'esistenza di due tipi di cariche elettriche. Nel 1745 fu introdotto il primo condensatore, la bottiglia di Leida, che consisteva in un recipiente di vetro ricoperto all'interno e all'esterno con due fogli di carta stagnola; dopo aver caricato le due armature con una macchina elettrostatica, si produceva una violenta scossa toccandole contemporaneamente.
Nel corso del suo famoso esperimento con l'aquilone, Benjamin Franklin provò che l'elettricità atmosferica, responsabile della formazione dei tuoni e dei fulmini, è identica alla carica elettrostatica di una bottiglia di Leida. Franklin elaborò una teoria secondo cui l'elettricità sarebbe un "fluido" presente in tutta la materia; in questa ipotesi, i due stati di elettrizzazione di un corpo sarebbero dovuti all'eccesso o alla carenza di tale fluido.
La legge secondo cui la forza esercitata tra cariche elettriche è proporzionale all'inverso del quadrato della loro distanza fu provata sperimentalmente intorno al 1766 dal chimico britannico Joseph Priestley. Questi dimostrò inoltre che una carica elettrica si distribuisce uniformemente sulla superficie di una sfera metallica cava e che, in condizioni di equilibrio, il campo elettrico all'interno di un conduttore è sempre nullo. Mediante la sua bilancia di torsione, Coulomb determinò accuratamente la forza che si esercita tra cariche elettriche, confermando le osservazioni di Priestley e mostrando che la forza tra due cariche è proporzionale al loro prodotto. Importanti contributi allo studio dell'elettricità furono dati da Faraday, autore della teoria delle linee di forza.
I primi esperimenti sul comportamento della corrente elettrica vennero eseguiti dagli scienziati italiani Luigi Galvani e Alessandro Volta. Galvani ottenne la contrazione dei muscoli nelle zampe di rana applicando a esse una corrente elettrica e Volta, nel 1800, annunciò l'invenzione della prima pila elettrica. Il fatto che esistesse un campo magnetico attorno a un filo percorso da corrente elettrica venne dimostrato nel 1819 dallo scienziato danese Hans Christian Oersted, e nel 1831 Faraday provò che una corrente che scorre in una bobina può indurre una corrente in una seconda bobina posta in prossimità della prima. Intorno al 1840 James Prescott Joule e Hermann von Helmholtz dimostrarono che i fenomeni elettrici obbediscono alla legge di conservazione dell'energia.
Un importante contributo allo studio dell'elettricità fu l'opera del fisico-matematico britannico James Clerk Maxwell, il quale sviluppò la teoria della luce come radiazione elettromagnetica e formulò le leggi fondamentali dell'elettromagnetismo, oggi note come equazioni di Maxwell. La conferma della validità della sua teoria si ebbe con le ricerche del fisico tedesco Heinrich Hertz, che nel 1886 riuscì a produrre e a rivelare le onde elettromagnetiche nell'atmosfera, e dell'ingegnere italiano Guglielmo Marconi, il quale nel 1896 sfruttò queste onde realizzando il primo sistema pratico di comunicazione radio.
La teoria elettronica, che è la base della moderna teoria dell'elettricità, fu enunciata nel 1892 dal fisico danese Hendrik Antoon Lorentz. La prima misura accurata della carica dell'elettrone fu ottenuta nel 1909 dal fisico statunitense Robert Andrews Millikan. L'uso generalizzato dell'elettricità come sorgente di energia è dovuto in gran parte al lavoro pionieristico di inventori e tecnologi come Thomas Alva Edison, Nikola Tesla e Charles Proteus Steinmetz.
MACCHINE ELETTROSTATICHE A STROFINIO.
Le macchine a strofinio, insieme alla bottiglia di Leyda, hanno svolto un ruolo fondamentale nella storia della fisica dei fenomeni elettrici in quanto, fino alla metà dell'Ottocento, hanno costituito l'unico mezzo per ottenere con continuità potenziali molto elevati, e per immagazzinare quantità considerevoli di carica elettrica.
Il prototipo di queste macchine risale al 1663, quando O. von Guericke (1602-1686) realizza il primo dispositivo in grado di produrre la "virtù elettrica", costituito da un globo di zolfo messo in rotazione da una manovella mentre la mano dello sperimentatore, avvolta in un panno ben asciutto, si manteneva a contatto del globo.
MACCHINE ELETTROSTATICHE A INDUZIONE
Le macchine a induzione sono basate sui processi moltiplicativi di una carica iniziale per induzione ripetuta mediante trasporto delle cariche su un disco rotante. Oltre alle macchine di Holtz, del 1865, prototipi di questa classe di apparati, esistono altri esemplari che rappresentano in modo significativo l'evoluzione delle macchine elettrostatiche a induzione, dalla macchina di Wimshurst (1885), a innesco automatico, alle macchine di Wommelsdorf (dal 1907), a motore.
Le macchine a induzione costituirono, fino all'inizio degli anni Trenta del Novecento, il mezzo più semplice per ottenere potenziali continui elevati, dell'ordine dei 100 kV. Mentre una macchina di Holtz con due dischi da 55 cm di diametro produceva scintille di 220 mm di lunghezza e una intensità di corrente di 70 mA, una macchina di Wommelsdorf a 5 dischi delle stesse dimensioni poteva già produrre scintille di 350 mm e 3*103 mA.
In questo acceleratore (Van de Graaff ne costruì il prototipo a Princeton nel 1929), la tensione acceleratrice è generata mediante trasporto e accumulazione di cariche elettriche su una sfera metallica cava, retta da una colonna isolante.Depositate alla base di un nastro isolante in movimento, teso tra due pulegge, le cariche elettriche sono trasportate all'altra estremità del nastro e vanno quindi a caricare la sfera mentre il nastro ridiventa neutro.Per una sfera con capacità C, alla progressiva accumulazione di cariche Q corrisponde un aumento di potenziale dato da V=Q/C.La base del nastro, che è situata tra un pettine alimentato da una tensione continua di 10-20 kV e la puleggia collegata a massa, viene caricata elettricamente per effetto corona:in ugual modo la scarica tra un pettine connesso alla sfera e la puleggia terminale isolata da essa permette l' accumulazione delle cariche trasportate sulla superficie esterna della sfera.L' isolamento in tensione di questo generatore (1 MV per una sfera di un metro di raggio) è considerevolmente migliorato racchiudendo l' elettrodo ad alta tensione e il tubo acceleratore in un involucro contenente gas ad alta pressione e di elevata costante dielettrica. Nei modelli più elaborati in funzione negli Stati Uniti (laboratori di Los Angeles e del Massachusetts Institute of Technology) sono state raggiunte tensioni acceleratrici di 8 MV con fasci di particelle di qualche mA.Gli acceleratori Van de Graaff sono impiegati per accelerare ioni oppure elettroni, rispettivamente utilizzati per lo studio delle reazioni nucleari e per generare raggi X di alta intensità per uso medico o industriale.
MACCHINA ELETTROSTATICA DI WIMSHURT
Montata su una cassa di legno, questa macchina era in origine composta,
come si vede nella fotografia, da due dischi di vetro sui quali erano incollate sottili
strisce di stagno. I dischi possono ruotare in senso inverso l'uno rispetto all'altro
grazie ad un sistema di pulegge e di cinghie, azionate da una manovella situata sul lato
della cassa. Un paio di spazzole dai crini metallici, posizionate davanti a ciascun disco
in modo da mettere in contatto le spazzole metalliche con le strisce di stagno, creano
l'elettricità statica. Questa viene recuperata da due collettori e trasmessa a due
condensatori. La rotazione contrapposta dei dischi permetteva a ciascun condensatore di
essere caricato in modo opposto come indicato dalle etichette con i segni "+" e
"-". L'elettricità accumulata dai condensatori si trasmetteva poi ai due
elettrodi pieghevoli.
In origine, l'insieme della macchina elettrostatica, eccettuati gli elettrodi, era
sistemata sotto vetro. Questo permetteva, grazie al calore prodotto dalle ampolle fissate
alla stessa cassa, di conservare l'aria dell'ambiente più secca possibile, per
ottimizzare le prestazioni della macchina stessa. La forza della scarica è proporzionale
alla distanza tra le sfere degli elettrodi. Infatti, maggiore è questa distanza, più
l'accumulazione di elettricità nei condensatori dovrà essere grande per vincere la
resistenza offerta dall'aria che separa gli elettrodi.
L'elettroforo, ideato da A. Volta intorno al 1775, rappresenta una prima rudimentale macchina elettrostatica a induzione in grado di accumulare e separare cariche elettriche. È costituito da uno strato di resina (stiacciata o focaccia nel linguaggio dell'epoca) contenuta in un piatto metallico, e da un disco metallico dotato di manico isolante (scudo). Lo strato di resina veniva caricato negativamente per strofinio (in origine con una coda di volpe o con pelle di gatto, successivamente con uno strofinatore, costituito da un disco metallico con il fondo ricoperto di vernice isolante o di stoffa); si poneva poi lo scudo a contatto con lo strato di resina.
Per induzione lo scudo si carica di segno positivo sulla faccia prospiciente la resina e di segno negativo sulla faccia superiore. Toccando con un dito la faccia superiore, le cariche negative si scaricano a terra e scocca una scintilla. Lo scudo rimane così carico positivamente. Se si solleva lo scudo e si scarica l'elettricità positiva, si può disporre di nuovo lo scudo sullo strato di resina e ripetere le operazioni precedenti senza che la resina debba essere rielettrizzata (in luogo asciutto, la "focaccia" protetta dallo scudo poteva rimanere infatti carica per mesi). Per tale motivo Volta denominò il dispositivo elettroforo perpetuo.
I suoi primi esperimenti di elettrologia sono descritti nelle lettere che egli inviò ai due maggiori elettrologi dellepoca, Giovanni Battista Beccaria e Jean Antoine Nollet, e nelle quali sono illustrate le sue spiegazioni riguardo ai fenomeni che andava osservando. Il carteggio è ricco di informazioni sulle primissime scoperte del giovane Alessandro: nella memoria epistolare "Sulla forza attrattiva del fuoco elettrico e sui fenomeni che ne derivano", inviata a Beccaria nel 1769, già si trova, per esempio, il concetto di stato elettrico dei corpi, cioè di potenziale elettrico. Risale al 1775 la prima applicazione pratica delle sue scoperte, lelettroforo, un apparecchio in grado di generare elettricità statica per induzione, che lo rese celebre in tutta Europa. Volta viaggiò infatti attraverso il continente presentando il suo dispositivo e lavorò con il chimico Antoine Lavoiser e lastronomo Pierre S. de Laplace, diventando tra i fisici europei più autorevoli. Alla fine del Settecento, Volta non era il solo ad occuparsi di elettrologia: in quel periodo alluniversità di Bologna lavora il fisico Luigi Galvani, portando avanti ricerche sullelettricità animale. Nel 1780 Galvani, conducendo esperimenti sulle rane, affermò di aver prodotto una corrente elettrica, toccando con due metalli diversi il muscolo di una rana, e mandò a Volta una copia dei suoi risultati. Volta, però, era del parere che il muscolo della rana avesse soltanto rilevato lesistenza della corrente e che a produrla fossero stati invece gli stessi due metalli. Dalle differenze di vedute tra i due scienziati nacque una polemica, che ben presto superò i confini del particolare esperimento, e diventò un dissidio tra la "scuola pavese" di Volta e la "scuola bolognese" di Galvani. Dopo una lunga serie di ricerche condotte da entrambe le parti, fu la prima ad avere miglior successo e, nel 1800, Volta diede unefficace dimostrazione della sua pila elettrica.
La pila a colonna consiste in una serie di 120 coppie di dischi di zinco e di rame saldati tra loro, e separate, ciascuna, da un disco di panno inumidito con acqua e acido solforico. I dischi sono impilati in un'asta centrale di ottone, serrata superiormente da un disco di legno con pomello. La base della pila, che deve essere isolante, è di legno. Sempre isolanti sono le tre astine rivestite di vetro che racchiudono i dischi. All'estremità superiore della pila si trova un disco di rame (polo negativo), a quella inferiore un disco di zinco (polo positivo). Ai poli sono fissati due ganci per il collegamento con i reofori che vanno a chiudere il circuito.
Lanno successivo Volta ripeté la dimostrazione a Parigi davanti Napoleone Bonaparte, che rimase a tal punto impressionato da regalargli uningente somma di denaro, nominarlo conte e offrirgli 60.000 franchi dellepoca per incoraggiare gli studi sullelettricità. La pila di Volta aprì nuovi e più importanti orizzonti allimpiego dellelettricità e in seguito, in onore del suo inventore, lunità di forza elettromotrice venne chiamata "volt". La pila non è lunica innovazione che dobbiamo ad Alessandro Volta. Sua è anche la formulazione della legge sulla dilatazione dei gas, e la scoperta, nel 1776, del cosiddetto "gas delle paludi": il metano.
La macchina, progettata da W. Holtz intorno al 1865, è stata successivamente modificata da J. C. Poggendorff e da H. Ruhmkorff e realizzata in molte varianti. Nella sua prima versione la macchina presenta due dischi di vetro verniciati con gommalacca, di diverso diametro, coassiali, disposti verticalmente e affacciati. Il disco maggiore è fisso mentre l'altro può essere messo in rotazione mediante un sistema di ruote collegate da una cinghia di trasmissione e una manovella. La macchina sfrutta i processi moltiplicativi della carica iniziale in base a induzione ripetuta per trasporto delle cariche sul disco mobile. La carica iniziale viene comunicata per contatto ad una delle due "armature" sul disco fisso con un induttore ausiliario (costituito nei primi esemplari da una piastra di ebanite elettrizzata per strofinio con un panno di lana), mentre si mette in rotazione il disco mobile (fase di innesco). I processi di induzione avvengono poi per mezzo dei pettini, posti di fronte al disco mobile in corrispondenza delle armature, e delle armature stesse. Nella fase di innesco i pettini e i poli della macchina devono essere posti in comunicazione. Non appena la densità di carica sui poli è sufficientemente elevata, questi vengono allontanati e per rotazione uniforme del disco, fra di essi scoccano scintille a intervalli regolari. Una
bottiglia di Leyda, con l'armatura interna collegata a uno dei due poli, poteva essere usata per aumentare, a parità di potenziale, la quantità di carica ad ogni scarica.
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