La notte dell’Angelo.
di Oriana Pagliarone
Domenica di Pasqua.
Le era capitato di passare la Pasqua in ospedale.
Assisteva la madre per una brutta caduta.
Quando si entra in ospedale, il tempo assume un altro andamento: tutto diventa più lento, ovattato. Le azioni quotidiane si svolgono sempre alla stessa ora, scandite da un orologio tutto particolare: alle 6 la colazione, alle 12 il pranzo, alle 18 la cena. Tutto avviene al rallentatore, ma in orari molto diversi da quelli abituali. S’impiega il tempo occupandosi delle proprie cose personali: lavarsi, cambiarsi, mangiare, tutto pur di far passare il tempo che, inesorabile, rallenta, rallenta, fin quasi a fermarsi.
Era quello il suo stato d’animo: si sentiva avvolta da una cappa che la imprigionava e le faceva rallentare i movimenti. Le sembrava che anche il cervello ragionasse al rallentatore.
La madre riposava. Era diventata più piccola e magra: stava rannicchiata sotto le coperte, a stento la si distingueva tra le lenzuola. All’apparenza, indifesa, quasi arresa all’inevitabile, nascondeva invece durezza nei modi e nella voce. Anche da malata.
Renata la guardava: non riusciva a provare pietà per quella donna, che le aveva rovinato l’esistenza. Tutta la sua vita ruotava intorno a lei, un obbligo a cui non era stata capace di ribellarsi. Era la figlia nubile, toccava a lei assistere la madre malata.
Non si era sposata; era rimasta a casa dei genitori. La cosa, all’inizio, era sembrata comoda e anche piacevole. Restare per sempre figlia le aveva permesso di non crescere: non un lavoro, non una famiglia, insomma nessuna responsabilità. Qualche amore fugace e non impegnativo.
Si era laureata. Avrebbe potuto insegnare, ma non aveva mai voluto lavorare con la scusa che doveva accudire i genitori che diventavano anziani. Il motivo vero, inconfessato, era che aveva paura di relazionarsi con gli altri, figuriamoci con gli alunni: troppo per lei. Una paura ancestrale l’aveva sempre posseduta e non la faceva sentire adeguata ad affrontare nessuna situazione, ancor meno una classe di ragazzini indemoniati. Non aveva carattere, ma lei credeva il contrario, aveva di sé un’idea tutta particolare: si dava mille giustificazioni pur di non ammettere che c’era qualcosa nella sua mente che non quadrava e che la rendeva diversa dalle altre donne.
Un tempo, le era venuto il dubbio che si dovesse curare. Dopo molti ripensamenti si era rivolta ad uno psicologo: era stato disastroso.
La psicanalisi mette le persone di fronte ai loro veri problemi, che spesso risalgono all’infanzia. I traumi e le ferite di un’infanzia infelice si portano impressi nell’anima, per sempre e ci vuole un forte desiderio di superare tutto quello che ci ha fatto soffrire, per uscire dal tunnel di dolore e affrontare il futuro più serenamente. È un percorso doloroso, a volte insopportabile. Così era stato per lei. Ed era scappata.
Ora, la madre,vicino a lei, sembrava una bambina, vinta dal sonno.
Piano piano quella visione le riportò alla mente se stessa, bimba di pochi anni.
Era stata una bambina solitaria e triste. Non aveva compagni di giochi, spesso stava da sola in un angolo a giocare con la sua bambola, a cui rivolgeva attenzioni e affetto, ma in modo silenzioso, quasi cauto. Avvertiva intorno a sé una tristezza impalpabile, ma reale: i genitori erano in crisi già da alcuni anni, le cose non erano migliorate con la sua nascita, anzi. Fare figli per risolvere i propri problemi di coppia è l’errore più grave e crudele che due persone possano commettere. Infatti le cose erano precipitate: quella bimba non aveva aiutato i genitori ad avvicinarsi, anzi, si erano allontanati sempre di più, ora quasi non si parlavano.
I bambini assorbono gli stati d’animo degli adulti, anche se non sono in grado di decifrarli e Renata sentiva il malessere dei genitori, ma lo attribuiva alla sua incapacità di farli felici: «Se non sono contenti, è colpa mia, sono io quella sbagliata, quella che non sa farli sorridere!» si diceva, immaginando che le cose sarebbero state diverse se, al suo posto, fosse nato un maschio: « Papà ha già una figlia femmina, ora sicuramente voleva il maschio, invece sono nata io. Ecco, dovevo nascere maschio, papà sarebbe stato contento. La verità è che papà non mi vuole bene!»
Difficile sradicare un tale concetto dalla mente di una bambina che si sente rifiutata.
In realtà il padre era distratto da altri pensieri e da altri amori. Voleva certo bene a Renata, ma in quel momento era innamorato di una giovane donna, anche lei sposata, e si sentiva prigioniero di un legame, che non si risolveva a sciogliere, ma da cui si sentiva stritolato.
Anche la mamma di Renata aveva capito quanto grave fosse la crisi del marito, ne era profondamente addolorata, ma soprattutto si sentiva offesa per essere stata ancora una volta messa da parte. Il tentativo di avvicinamento, culminato con la nascita di Renata, era fallito.
La bambina, che portava anche nel nome il tentativo di far rinascere un sentimento, che i genitori credevano solo sopito, nata per sanare una frattura, aveva affrontato inconsapevolmente il suo primo fallimento: non era riuscita a far riavvicinare i genitori, ma questo, lei, non lo poteva capire con chiarezza, ma sentiva solo di non essere capace di farsi voler bene da loro.
La mamma era depressa, soffriva spesso di mal di testa che la costringevano a letto per ore. Renata si sentiva esclusa, allontanata, senza motivi apparenti: “Anche mamma non mi vuole bene, sta sempre chiusa nella sua stanza, non gioca mai con me, non mi sorride mai, anzi mi guarda spesso con degli occhi tristi… Sono io la causa della sua tristezza! Non so perché, so solo che non è felice e neanch’io”.
Come se non bastasse, in casa c’era la sorella maggiore, Greta, più grande di lei, brava, studiosa, molto amata dai genitori: era stata fortunata, quando era nata lei, i genitori erano sposati da poco, si amavano ancora molto, e quest’amore lei l’aveva respirato nell’aria, ne era pervasa.
Era solare, allegra, con una buona dose di autostima, anche se ancora ragazzina, insomma tutto l’opposto di Renata, che doveva confrontarsi anche con quell’ostacolo alla sua serenità di bimba: Greta non la considerava molto, la riteneva troppo piccola per condividere i piccoli segreti di una ragazzina che cominciava a crescere, anzi era solo un intralcio fastidioso per lei, che voleva essere sempre al centro dell’attenzione.
Per sette anni era stata figlia unica, coccolata, anche un po’ viziata. Il papà era preso da questa bimbetta, che sapeva già usare le sua arti di seduzione in maniera inconscia ma efficace.
Anche la mamma si sentiva finalmente realizzata: una figlia era il suo più grande desiderio, che si era finalmente avverato. Insomma tutto bene, ma ecco arrivare un’altra figlia!
Le cose ovviamente cambiarono radicalmente, Greta non aveva più i genitori tutti per sé, c’era questa estranea che piangeva sempre, che doveva essere accudita. Le dicevano che lei era una donnina, che doveva aver cura di Renata e proteggerla in quanto sorella maggiore.
In realtà il primo impulso di Greta era stato quello di sbarazzarsi della sorella, suggerendo ai genitori di “ buttarla via”. Gelosia allo stato puro.
Anche Renata era stata gelosa della sorella, perché più grande, più bella, con un carattere aperto che le permetteva di conquistare le simpatie di tutti, mentre lei si sentiva brutta, con gli occhiali, la macchinetta dei denti, un poco grassottella, timida ed impacciata con gli altri.
Ora stava lì seduta sulla sedia dell’ospedale, cercando di allontanare quei pensieri malinconici: la sua infanzia era stata triste, infelice e lei si sentiva ancora quella bimba incapace di combattere contro tutti quei sentimenti negativi.
Era cresciuta, certo, ormai una donna adulta, quasi sfiorita, eppure quella bimba infelice era sempre dentro di lei.
La madre si mosse nel letto: «Renata, sei lì? Mi dai un po’ d’acqua? Ho la gola secca, mi fa male la testa. Cosa fai al buio? »
«Ti guardavo, mamma, stavi dormendo. Ecco l’acqua.» Il tono della voce di chi, nella vita, si è sempre arreso.
Lei si sentiva arida, svuotata, oppressa dal dovere di accudire quella donna per la quale non provava alcun affetto.
«Accendi la luce, non è ancora una veglia funebre! E stai dritta con le spalle, possibile che tu debba stare sempre rannicchiata su te stessa, mi dai sui nervi! E chiama il dottore, fai presto, muoviti, voglio qualcosa, ho un fortissimo mal di testa. E muoviti, fai presto! Ma hai capito che il mal di testa che mi sta facendo impazzire?»
Renata pensava che pazza sarebbe diventata lei appresso alla madre, senza una vita propria, senza un solo scopo, se non quello di accudire una donna dispotica ed egoista.
«Ecco, accendo la luce, ora chiamo il dottore, vediamo se ti può dare qualcosa per il dolore.»
«Lascia perdere, tu chiamalo e basta! Ci parlo io con lui, tu non sei capace di ottenere mai niente. Dai, chiamalo! Al resto penso io.» La voce stizzosa, il volto tirato.
Vittima e carnefice si scambiavano spesso i ruoli: a volte la madre tiranneggiava Renata, imponendole i suoi capricci e le sue manie, altre volte era Renata a imporsi sadicamente sulla madre per costringerla a lavarsi, prendersi cura della propria persona, cose, esteriormente, tutte positive, che però celavano il compiacimento per quella totale dipendenza da lei: la madre doveva sottostare ai ritmi imposti da Renata: quando mangiare, quando lavarsi, cambiarsi, fare le terapie.
Questo piccolo potere esercitato sulla madre la placava, le permetteva di andare avanti e sopportare quando i ruoli s’invertivano e la vittima diventava a sua volta carnefice, imponendo la sua volontà con capricci esagerati e lamentele.
Un duello impietoso, senza vincitori né vinti, solo sofferenza e livore.
Arrivò il dottore.
Con molta calma spiegò alla paziente che ora non poteva avere nessun calmante: in serata, forse, se si fosse comportata bene: «Su, signora, non insista e non faccia così, tra poco è ora di cena e dopo potrà avere il suo calmante per riposare questa notte, va bene?»
La voce suadente e il sorriso nello sguardo del dottore non sfuggirono a Renata che lo seguì nel corridoio, forse per scambiare due parole, forse per prendere fiato in quel pomeriggio interminabile: «Dottore, le posso chiedere di mamma? Come sta? La caduta ha compromesso il suo stato?», ma non si faceva illusioni sulla salute della madre.
«Signora, lei sa bene che sua mamma ha un tumore con metastasi, che hanno intaccato le ossa. La caduta è una conseguenza di questo indebolimento. Purtroppo non c’è niente da fare. Mi scusi la franchezza, ma è inutile creare illusioni. Appena sarà in grado di essere trasportata, la rimanderemo a casa. È meglio per tutti.»
Il medico era stato sincero fino alla brutalità, ma certe volte era necessario, quando i famigliari non volevano accettare la realtà.
« Dottore, la ringrazio per la sua sincerità e cortesia, ora torno in camera, non la voglio trattenere oltre.»
«Aspetti, la vedo molto pallida e stanca. Da quanto tempo non mangia qualcosa? Ora sono in pausa, venga con me, le offro una merenda, proprio come ai bambini, mi sembra che ne abbia bisogno.»
La prese per un braccio e la spinse verso il corridoio, lungo le scale fino all’uscita dell’ospedale.
«C’è un bar qui vicino, potrà respirare un po’, la vedo sotto pressione, e non è un bene. Anche nell’accudimento di un malato occorre staccare ogni tanto, altrimenti si crolla.»
Quelle parole le fecero salire le lacrime agli occhi: non voleva piangere, non era abituata a lasciarsi andare, ma quei modi gentili le avevano scardinato il muro di diffidenza che normalmente costruiva intorno a sé.
Vedendo quelle lacrime, il dottore le mise un braccio intorno alle spalle, quasi per proteggerla da tanto dolore, ma lei si scostò quasi con rabbia: «Non faccia così, dottore, non sono abituata alla tenerezza, mi sconcerta!»
Questa volta fu il dottore a stupirsi per la reazione della donna: aveva visto, tante volte, figli affranti per la malattia dei genitori, aveva sempre trovato una parola consolatrice per tutti, ma questa donna aveva una reazione strana, le sue parole poi…
«Non mi dica che nessuno è mai stato gentile con lei, non le credo, nessuno è così sfortunato nella vita, via, non faccia così, ora si calmi.»
Ma Renata non era addolorata per la madre, piangeva perché, per un momento, si era sentita una bambina indifesa, la dolcezza nella voce del dottore era stata la molla che le aveva provocato quella reazione così insolita. La mancanza di tenerezza l’aveva accompagnata per tutta l’infanzia e ora ne sentiva tutto il peso.
«Usciamo, prendiamo un po’ d’aria, le farà bene.»
Fuori dall’ospedale s’incamminarono verso il bar lì vicino.
«Non mi sembra che lei mangi abbastanza, è molto pallida e stanca, lo vedrei anche se non fossi un medico. Da quanto tempo accudisce sua madre?»
Erano arrivati davanti al bar.
Senza aspettare la risposta, la fece sedere ad un tavolino d’angolo, per stare più tranquilli: «Allora? E’ da molto che sua madre è malata?»
«Da un paio d’anni, ma in questi ultimi mesi è molto peggiorata. Io sono stanca, non ce la faccio più. È dispotica, mi comanda in tutto, non ho una mia vita privata. Mi scusi dottore per questo sfogo, ma non riesco più ad andare avanti!»
« Hai bisogno di aiuto. Scusa, ti ho dato del tu, mi è venuto spontaneo!»
«Ma certo, diamoci del tu. Io sono Renata.»
«Franco. Molto piacere» e sorrise sfiorandole la mano.
Arrivò il cameriere, prese le ordinazioni.
«Renata, ti devi far aiutare, devi prendere una persona di fiducia che stia con tua madre mentre tu ti riposi un po’ durante la giornata.»
«Sì, forse dovrei, ma non riesco a staccarmi da lei. Eppure mi sento in prigione. Lei è la mia carceriera!»
«Dai, non dire così! Vedrai che le cose miglioreranno, basta organizzarsi.»
Arrivarono i cappuccini e dei dolcetti: Renata cominciò a bere, tenendo la tazza con tutte e due le mani, come per riscaldarsi al calore di quel contatto.
Quel gesto fece sorridere il dottore: sembrava proprio una bambina bisognosa di attenzioni e tenerezze.
Franco la osservava: «Sei una strana ragazza, non ti curi abbastanza, ma sei bella» e, avvicinandosi: « Hai una pelle bianca e levigata, un nasino spiritoso.»
Le fece una carezza lenta sul viso, le toccò le labbra con le dita e la sfiorò con un bacio leggero.
Lei era turbata, si vergognava del suo sfogo di prima, ma era anche contenta del gesto quasi timido del dottore.
«Dai, finisci di bere e rientriamo, è ora di cena, tua madre si sarà già innervosita, non vedendoti.» La prese sottobraccio, stringendola un po’ a sé, con un’intimità nuova e strana per lei.
«Grazie, Franco, ora mi sento meglio.»
«Merito del cappuccino caldo o del mio bacio?» scherzò avvicinandosi ancora una volta e baciandola con più insistenza.
Lei rispose a quel bacio, era turbata, ma non voleva tirarsi indietro: le sembrava un inaspettato regalo della vita. Finalmente qualcuno cominciava a provare un sentimento per lei.
«Passerò più tardi a vedere come stai» disse mentre rientravano in ospedale.
Lei annuì sorridendo. Senza voce, il cuore in tumulto.
Quel gesto affettuoso l’aveva risollevata, ma subito cambiò espressione appena mise piede nella stanza della madre: «Ma dove sei stata! Lo sapevi che avevo mal di testa! Te ne sei fregata. Come sempre. Mi hai almeno portato un calmante?»
Tutto doveva girare intorno a lei, sempre, in ogni momento: «Mamma, è ora di cena, mangia prima, e poi l’infermiera ti porterà qualcosa per farti dormire. Su, fai la brava, è Pasqua. Ti prego, almeno oggi, non litighiamo.»
«Io non litigo, vorrei soltanto che le cose si facessero come dico io; non chiedo molto, ti pare?»
«Sì, mamma, ora mangia, è tutto pronto.»
Dopo cena, la mamma si addormentò, grazie al calmante dell’infermiera.
Renata si rifugiò nel pensiero del dottore: forse aveva provato pena per lei, ma quella carezza, quei baci, avevano acceso una piccola speranza, poteva essere l’inizio di qualcosa! Anche lei aveva diritto ad un briciolo di felicità! Forse il bel dottorino stava solo scherzando con lei, ma che importava, era un’emozione nuova e voleva lasciarsi andare, senza pensare a niente.
Uscì dalla stanza.
Nel corridoio incontrò di nuovo Franco che l’accolse con un sorriso: «Vieni sul balcone a prendere un po’ d’aria, devo darti una cosa.» In fondo al corridoio di ogni ospedale c’è sempre un balcone, per permettere a infermieri e pazienti di fumare una sigaretta in pace, anche se vietato.
«Oggi è Pasqua, ecco questo è per te.» Le mise in mano un ovetto di cioccolata, quello con la granella di mandorle.
«Grazie, come sei dolce!» Lui la prese tra le braccia e la baciò con passione. Si staccarono emozionati: «Domani sono di turno, monto alle otto di sera, ti verrò a cercare.» Una promessa, una speranza, un inizio.
Franco si allontanò per il corridoio, Renata rimase ancora un po’ sul balcone: le mancava l’aria, aveva il respiro corto, il cuore le batteva forte. Stava nascendo qualcosa: un amore, forse.
Lunedì dell’Angelo.
La giornata cominciò con le solite bizze della mamma: capricci, discussioni, litigi,
eppure nulla scalfiva la serenità di Renata, che nascondeva un segreto, dolce e prezioso: il suo appuntamento con il bel dottorino, il suo Franco, come cominciava a chiamarlo nei suoi pensieri.
Le ore sembravano non passare mai.
«Oggi è il giorno di Pasquetta, c’è anche la colomba a pranzo, vedi mamma? L’infermiera te ne ha portato un pezzetto, per festeggiare! Dai, mangiane un po’, non può certo farti male!»
Renata cercava di addolcire l’umore tetro della mamma, senza alcun risultato: «Cosa vuoi che mi importi della colomba, né della Pasqua, io voglio solo uscire di qui e tornare a casa! Sono stufa, me ne voglio andare! Possibile che tu non ti accorga mai di niente? Non vedi che non mi danno più medicine, che non mi stanno curando? Cosa ci sto a fare qui! Chiama il dottore, voglio essere dimessa!»
«Mamma, calmati, appena possibile parlo con il medico e vediamo cosa si può fare.» Un timido sorriso sulle labbra di Renata, il cuore le batteva forte al pensiero del dottore, del suo dottorino, il suo Franco. L’avrebbe rivisto tra poche ore. Una gioia lieve s’impossessò di lei, nulla poteva scalfire quei momenti, l’attesa era forse più dolce ancora del ricordo di quei baci scambiati il giorno prima.
Doveva solo lasciar scorrere le ore. Si sentiva viva, come non le capitava da tempo, ormai.
Si andò a guardare allo specchio: gli occhi le brillavano, un lieve rossore sulle guance stava cancellando il pallore dei giorni passati in ospedale, dove tutto, dopo un po’, diventava grigio, come le pareti di quelle stanze. “Chissà perché per gli ospedali si sceglie spesso il grigio, come colore. È così tetro, triste! Invece si dovrebbero utilizzare colori caldi, il giallo, l’arancione, per dare un po’ di vita e di speranza alle persone! Sarebbe così bello!”
Sorrise tra sé pensando ad un ospedale arcobaleno!
Le piaceva quest’idea. L’arcobaleno poteva essere, era, il simbolo della sua rinascita. Una nuova vita arcobaleno! Non più grigia, ma tutta colorata. Non più sola. Mai più sola! Con Franco la sua vita sarebbe cambiata, sicuramente. Una vita a colori.
Le ore scorrevano lente, le ombre si allungavano nella stanza.
Finalmente si fecero le otto di sera.
Non arrivò nessuno.
Passò ancora un’ora, poi un’altra.
Renata uscì dalla stanza, restare lì le era insopportabile. L’arcobaleno stava scomparendo dalla sua mente, si stava dissolvendo per far posto di nuovo al grigio. Non era possibile, non era possibile!
Con il trascorrere delle ore, capì di essere stata presa in giro: ancora una volta qualcuno aveva approfittato di lei. Una delusione ancora più cocente, perché inattesa, la travolse: lacrime di rabbia le scesero sulle guance.
Tutto il dolore di un nuovo fallimento su di lei, come un macigno.
Una lama sottile nel cuore.
Franco si era voluto divertire un po’, in maniera superficiale: in fondo solo qualche bacio, niente d’impegnativo. Giocare al seduttore di quella strana ragazza era stato divertente, ma il tutto doveva finire lì. In fondo anche gli arcobaleni svaniscono in fretta.
Barcollando, rientrò nella stanza, senza energie, svuotata: «Aiutami, ti prego. Mi sento male, mi manca il respiro. Ho un dolore nel petto!»
Un grido rauco e poi il silenzio.
Renata guardò la madre riversa sul letto.
Rimase immobile, indifferente.